Pita pitela, di Elia Malagò, uscì per la prima volta nel 1982, copertina nera e fregio verde a fare da cornice. Per i tipi di Forum/Quinta Generazione, nella Collana Poesia 80, diretta da Giampaolo Piccari.
Ora i Feaci ne accolgono un nuovo approdo, in forma del tutto rispettosa del testo originale, accompagnato da una nota di Rita Baldassarri e da una lettura di Gino Baratta.
Si vorrebbe avere una voce potente, quella dei fuochi che bruciano e schioccano d’estate sulle spiagge di Po, per salutare questo attracco, capace com’è di incrinare, per un attimo, la coltivata vocazione alla riservatezza dell’autrice, e di ospitare, nei possibili transiti della sua poesia, il regalo di un indugio (o di una tangenza).
Non di fermarlo.
Perché questo compete al testo poetico: l’inarrestabilità dei passaggi, la persistenza della mobilità.
Non si torna alla poesia, quasi fosse un grumo immobile, inchiodato.
È la poesia a raggiungerci e a toccarci nel suo percorso circolare lungo i tempi e i luoghi, con il valore aggiunto di tutte le sue traversate, di tutti i suoi viaggi.
La poesia non sta ferma ad aspettare.
Arriva col suo corpo tatuato di parole (perché soprattutto il tempo sa diventare corpo), parole che altre hanno chiamato, strato su strato.
La poesia le tiene sulla pelle, assieme ai fatti e agli sterpi, alle spine e ai cicloni assorbiti nel percorso, a fare rotolo e spessore: lumaca di acqua / casa sulle spalle…
Con questo carico, parla alla nostra capacità di leggere e sentire: senza scadenze e senza date, ricca della sua attualità atemporale.
La poesia che giunge sul filo di pita pitela, conta o filastrocca a guidare passi vagabondi con l’aiuto di uno zufolo di salice e rubilia, non traversa “l’alte/nebulose”, così care a Montale.
Arriva sottovento, da spazi, movimenti e modi che sono solo suoi.
Da occidente, forse, o dal ventre, o dal buco pesto, o dalla sacca buia, o daisotterranei/ sotto le trappole del bosco o da sotto il cuore, dove si scavano le crepe, dal budello di rive, da melme e paludi, da letti d’acqua verdi a/ macerare, dove è facile affondare e sentire la paura di perdere la voce, di non averne il coraggio.
Arriva col moto lento di un andare che batte entrambe le direzioni, lo stesso andare della vita, incerta fra il trattenere e l’allontanare, fra l’amare e il cancellare, il partire e il restare, l’uscire e il tornare dentro. E allora non sceglie né cerca armonie, ma solo compresenze di opposti, che sono mescolanza e reciproca contaminazione.
Chiede (vuole, tocca) terra, la poesia, come il nascere. E acqua. Terracqua.
(Re)sta nell’orizzontale e a questa linea mossa e schiacciata tutto riporta e lega: anche per nascere si scivola e si scende.
Su questa linea ci sono le stazioni e le storie, le tracce e le trappole.
Su questa linea si addomesticano i miti e si abbassano: si sporcano ulisse canaglia (uomo di riporto e delatore infedele) e il padreterno, argo e la storia dei grandi, i riti e l’avventura.
E più si abbassa l’alto, meno spazio resta per un qualsiasi gioco d’illusione o di speranza; anche la distanza non ha proiezioni verticali: si spalma fra uomini e cose, si distende e diventa solitudine, mia luna feroce che arrivi/vagabonda, fatica di portare il peso del cielo.
La poesia accade dunque sulla soglia del dolore, dove incontra il dio dei gemiti e “sdipana” lacrime dai lombi. Ed è prova e misura di voce, asciugata e indocile fralamine di pause.
Passi le mani sul dolore e dici: in questo gesto, che sa di corpo, di sangue ma anche di carezza, e in questo dire, che ne fuori-esce a gorgo o a tornante, penso abiti un frammento della “riserva di senso” di pita pitela: una “riserva di senso”, che Elia Malagò, nel corso di una conferenza, ha attribuito ai classici e che piace, ora, maternamente ricondurre alla sua poesia.
Zena Roncada
In apertura due segnali fuorvianti: uno costituito da una conchiglia di voci e l’altro da uno zufolo di salice e rubilia. Fuorvianti perchè dovrebbero o potrebbero aprire una dimensione di voce chiara e di idillio.
In realtà non c’è in pita pitela – l’ultima raccolta di Élia Malagò, mantovana di Felonica – nessun rimando ad alcun altro versante, ad alcun’altra alba.
Il mare a cui le lavandaie tendono gli occhi è un mare assente. Pita pitela apre lo spazio di una mitologia che è essenzialmente di terra – di terracqua -, dove i vagabondaggi possibili hanno lasciato segni soltanto attraverso piste lacustri, attraverso passaggi clandestini. Una mitologia di terra – nonostante le «valenze di acqua» – dove spesso si intana il sole o si indura la corteccia del gelo, dove può anche verificarsi l’identità tra la tana, la casa, e la madre; tra l’intalparsi e il perdersi nei labirinti di un terreno cavo ed il «riprendere i tornanti» dell’utero materno. In una nostalgia d’avventura, nell’attesa di incrociare, «per caso», chi porti «mappe nuove».
In realtà queste due parole, mappe nuove, andrebbero subito cancellate: in pita pitelanon c’è nessuna mappa nuova, anzi esistono catasti e censimenti che si conoscono da sempre: le mappe custodiscono eredità immutabili. È proprio questo che rende impossibile l’avventura. E c’è ancora un inganno: il «chissà» della dedica iniziale e una firma, Elia, in una lettera da cui nessuno è apostrofato.
Il dio dei gemiti che apre la prima sezione del libro esprime il senso di una possibile rinuncia, la condizione di una resa temuta. «Siamo stati per perdere la voce»: questo modulo perifrastico connoterà la paura di Elia M., e la tentazione insieme, del ritrarsi.
Altri segnali compariranno a rendere la raccolta tutta interamente contrastata da segni oppositivi. L’indicazione potrebbe cominciare dalla figura di Ulisse – volpe sirena – incaricata di storiche responsabilità di avventura, di scoperta, di viaggio: in realtà Ulisse si presenterà come una sorta di padreterno cui avvelenare cani e nutrici, da non riconoscere, ora «uomo di riporto», una copia, un calco; un Ulisse canaglia, implicato in una infinita menzogna, invitato a girare sottovento, a nuotare l’«altro mare». L’altro mare, l’altro polo, l’avventura inutile.
Eppure la tentazione è ancora quella di lasciare un diritto di ultima parola ad Ulisse e questa tentazione – rappresentata dalla voce – sarà altro motivo costante di tutta la raccolta.
Se la Malagò sembra cedere al non viaggio, al non partire, pervicacemente insiste invece su di una sostanza di voce, pur se di volta in volta contrastata, messa in dubbio.
E questo essere la voce internamente contrastata costituisce il carattere spesso aspro, petroso, del registro linguistico della M.: cioè il suo modo di non arrendersi ad alcuna dimensione di idillio o di intimismo. Può essere anche questa la griglia attraverso cui comprendere una linea di sperimentalismo linguistico che certamente non è assente dalla raccolta.
Il linguaggio è di volta in volta scandagliato, spezzato, come smembrato nelle sue fibre, esposto nel suo costituirsi; spesso il verso si presenta come «canto di lunga ira liberata», con quanto di asintattismi, di distasie può permettere una lingua che si minaccia di legare. Nella M. ritorna indubbiamente la tentazione di rifondare il mondo con la voce, tanto da presupporre ancora la possibilità di inventare una «casa di grida»: anche se la vocazione alla voce è spesso accompagnata dal desiderio di sparare alle parole, come se tutto già fosse stato detto.
Questa scommessa rinnovata col canto contraddice, ma non nega quell’altro cardine, di resa, su cui gira pita pitela.
Sul piano della riconferma della voce e quindi del vivere si colloca pure un altro referente, continuo e polivalente, costituito sia dalla madre che dall’acqua. Come nel grembo materno, come nell’acqua si può trovare protezione, così la voce diventa un alveo, un luogo di raccoglimento per il quale è ancora possibile sentire «che ci siamo». Voce non certo incaricata di portare buona novella, ma il cui incarico è piuttosto quello di essere veicolo di inamena quotidianità.
Quanto finora si è detto dovrebbe costituire un motivo generale, quello che noi chiameremmo il nostos ricusato, l’antiviaggio di E. M., il suo nascosto peregrinare contro gli anni clandestini.
Una metaforica complessiva parla di un giro che ormai è chiuso, di boe che restano contro riva e rione, di ormeggi che non si possono tagliare. In sostanza nessuno parte, il bilancio è stato chiuso, così come si è chiusa l’economia di ogni tempo. «Ho consumato gli anni a capire / tutta una vita ormai e non vorrei averne un’altra / scioglierli come niente questi anni di viaggi clandestini». Il momento della resa trova la sua riconferma, altro non rimane che «svolgere il tempo», «svolgere la giornata» e «non volerne un’altra».
La stessa indecisione che riguarda la voce concerne il partire e il restare: di fatto continuamente nei versi il movimento è quello di un’onda che ripetutamente si avvicina e si allontana; tutto l’impegno sta nel procrastinare, nel dilazionare: e ad essere dilazionati sono gesti e desideri, fino alla consapevolezza che «poeta non sono più forse / mai stato … »
La scoperta è quella che per sè rimane sempre meno posto, mentre si scopre che gli anni portano via respiro, un «giro di viscere».
Ancora il sentimento di resa è confermato da alcuni versi emblematici: «… non vado a stanare nulla / mi basta / non essere a lungo/ il peggio che dura di più è passato / adesso resta / resta poi poco».
Un’altra invariante è rappresentata dal tempo, anzi da un sintagma temporale quasi inconfondibile: «i salti bruschi del tempo».
Va isolato proprio ad indicare una discontinuità temporale, quel senso dello stento del vivere e dell’affermarsi, quelle spaziature sottili e aride dentro le quali soltanto certe forme di vita possono trovare qualche sicurezza o riconferma.
In pita pitela ciò che manca è, nella sostanza, un orizzonte, uno spazio di respiro: e in quest’assenza consiste anche la consapevolezza di E. Malagò, il suo coraggio di insistere nel mantenere aperta una voce che non è mai canto.
Quando questo tempo spezzato e serrato si scioglie, si fa ritorno, ripetizione, ecco che ad inaugurarsi è la dimensione del rito, con quanto il rito ha, nella ripresa, di protezione, di rassicurazione: «il camino di cenere / e la comunione del pane tagliato» «a maggio i fiori sulla porta delle donne», le donne che «battevano lenzuoli ruvidi di cenere / levando le braccia … ». Un paradigma ricorrente congiunge mitologia e ritualità, ma nella rassicurazione della ritualità può essere implicito il prezzo della rinuncia al sintagma stesso della veggenza: «non dirò / non ti dirò più».
I riti sembrerebbero presupporre uno svolgimento dentro la ciclicità, invece anche quando la M. rileva che «ricominceranno i cicli», in realtà si tratta di cicli sempre interrotti, incrinati da una spezzatura, dove nessun anello si chiude, nessuna danza si porta a termine.
Ciò che occorre è apprendere le astuzie, la rapidità della lepre che riconosce le piste delle antiche paludi, la filibusteria di chi sa rintanarsi dentro le sconnessure del tempo: ritornare alla scuola di Ulisse, per non restare navigatori senza vele.
GINO BARATTA
in Quinta Generazione
Dispensa mensile di poesia
Anno XII 1984
settembre-ottobre
123/124,
Poi ne Lo specchio di carta,
Forum/Quinta Generazione, 1985
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