Parole fra i cristalli
Qui si cammina in punta di piedi. Attenti a non disturbare queste parole silenziose, a rispettare la spietata meticolosità di questi sguardi.
Lucia sogna, è vero, ed è con il linguaggio del sogno che propone cristalli parlanti e batteri ibridi, fossili messaggeri ed esseri fatti di tralci e foglie. Con la lucida disinvoltura del sogno lascia appeso nel cielo un piano che non trova spazio nella casa, ché le note sarebbero magari gradevoli, ma ingombrerebbero un luogo pensato per altro. Eppure non è propriamente di sogni che parla.
È una questione di confine: l’irruzione reciproca del quotidiano nel sogno e dei sogni nel quotidiano è regolata da membrane sottili, ed è nel luogo dell’osmosi fra le due dimensioni – che tutti inneschiamo, inconsapevoli, ogni giorno, ogni notte –, nella trasparenza delicatissima di quelle membrane che sono depositate le sue scritture.
Conviene perciò lasciare la retorica e l’illusione, le grandi nemiche di questa collezione di cristalli. Camminare piano fra i colori che improvvisamente squarciano il grigio dei mondi e dei tempi, scenario delle storie rarefatte di qui. E ascoltare l’amore per i colori – per le sfumature di quei colori – per la vita e le vite, l’amore che porta abitatori lontani delle stelle a venire a vedere gli autunni terrestri, che infiamma microrganismi baldanzosi e letali, che placa e ristora dopo le giornate roventi dei deserti.
Desiderio, insomma, volontà di essere; e di sapere l’imperfezione, la forma scalena, il vuoto, lo scarto dall’usuale; cercato, scoperto e – se necessario – inventato, ché inventare è cosa che facciamo sempre, guardando, sentendo: l’occhio o l’orecchio non copiano mai.
La galleria degli esseri e delle macchine – macchine arcaiche, di quelle che hanno ancora manopole e valvole, bachelite e ghisa, hardware davvero hard – Lucia la costruisce per arredare il vuoto. Sono esseri e macchine crudeli, a volte: dissuadono dai sogni, calibrano gli affetti; attenuano, illudendo così di rendere sopportabile l’onnipresente imperfezione. A volte invece sono esseri e macchine che guardano e manipolano come “da fuori”, salvandosi dunque dall’appiattimento della normalità e sperimentando sguardi e azioni attente, dedicate, sorprendendosi e divertendosi per la fantasia degli umani.
Inevitabilmente, si usa in queste righe un lessico rubato ai Cristalli dell’autrice. Nel lessico, che vira dal passionale all’asettico, dall’evocatorio all’ermetico, c’è tanta parte del senso di queste scritture. È il lessico dell’imperfezione vitale, del vizio di forma che dà forma originale.
È il lessico dell’imminenza. Per questo, forse, la lettura dovrebbe cominciare da un testo che coniuga la solennità dell’evento annunciato con l’umiltà artigianale della preparazione, della vigilia: quella tesissima e appassionata preparazione al Concerto Grande, in cui l’anomalia delle dimensioni si trasferisce dalla musica agli strumenti che la producono. Per uno spettacolo ancora una volta su un confine, “sull’orlo del mondo”.
Attese, nel tempo e nello spazio, vigilie e soglie: sono l’essenza di queste scritture, che esistono perché – come dice uno dei personaggi che parlano dai notissimi luoghi ignoti del mondo in cui ci si muove qui – la scrittura è salvezza.
È il Tempo, allora, ciò che separa dall’evento, che costruisce l’attesa, a dominare il mondo dei Cristalli. Il tempo che produce scorie – “pentole di latta ammaccate, vetri rotti, vestiti ammuffiti” – che non è misurabile, che va scomposto in fotogrammi, per consentire di allontanarsene e guardarli con l’occhio adeguato, ciascuno staccato dagli altri, collezionabile con amore rispettoso o reso innocuo con il distacco.
Trasformare i frammenti di tempo e i pensieri in oggetti, in quadri da galleria, senza pretendere di raffreddarli in un catalogo, è l’aspirazione di tanti degli esseri che parlano in queste pagine. Immaginari quanto basta, reali quanto basta.
Non è un caso che ad alimentare queste scritture sia la linea carsica del fantastico e del surreale, che a volte emerge esplicitamente; una linea lunga, nel tempo, che passa per il cantore delle metamorfosi e si dipana, o si aggroviglia, nutrendosi di scienza e di invenzione, di cavalieri inesistenti e di cronopi, di giacche stregate e di quasi-oggetti, di animali fantastici e di chimica degli umani.
E questa linea disegna qui una compostezza visionaria che è un dono prezioso. Una salvezza, appunto.
Piero Corrao
Lascia un commento