Ci vuole fiato. Per inerpicarsi tra le righe di Piera Ventre ci vuole fiato. Fiato sospeso, fiato sorpreso tra mille curve che spingono alle spalle su declivi dolci e precipizi improvvisi. “Solchi, e poi discese./Piccoli incavi morbidi – il velluto pettinato di certi prati verdi verdi – oppure asperità”. Ci vuole la sospensione di un angolo per ciascun ventricolo di cuore per disporsi ad accogliere la densità dell’emozione che la “bella figlia dell’amor” ricama in versi ribelli alle gabbie della rima, catene liriche che non vanno daccapo, come bambini di carta che si tengono per mano.
La sua penna detta le pause, impone la docilità del respiro ai ritmi della risacca dei suoi inchiostri iridescenti. Non è possibile uscirne indenni; e non c’è esperienza più imperdibile di un’onda che travolge e porta irrimediabilmente oltre, mutati comunque.
La scrittura di Piera lascia tracce. “Un palpito di vene, e sangue che avvampa, e corre.” Tracce lievi e persistenti come Watermarks che delineano percorsi allusivi al dolore di ciascuno e alla redenzione comune. Si esce dalle sue pagine coi pensieri spettinati e uno struggente senso di condivisione. Come da un’esperienza onirica, come dalla scivolata su uno specchio obliquo che ci nasconde il viso ma evidenzia l’anima di taglio. E tagli d’anima.
Le parole hanno fiato. Ammaestrate al sussurro e al grido ci assediano da due lati con stereofonie che redimono i nostri silenzi e placano l’urlo.
Accompagnano. Le parole di Piera accompagnano come sassi che sul sentiero ci rotolano accanto e somigliano a bambine serie coi sorrisi nelle tasche interne dei grembiuli ricamati ad ossimori ed umori.
Le obbediscono. Parlano con lei/di lei mentre lei di loro/con loro parla. “Semi da passare labbra a labbra” fioriscono con l’inclinazione che si accomoda tra la prospettiva della sua penna imperiosa e la direzione emozionale impressa dal lettore stesso “contagiato” da una sospensione incantata, un patto reciproco di poesia.
Ci vuole fiato. Per scrivere come Piera Ventre ci vuole fiato, con alito di dolore e retrogusto di speranza.
Danno fiato. Le sue parole danno fiato. Fiato per masticare la voce uscendo dall’onda ancora inzuppati di parole e silenzi, di pause e vertigini intense; fiato per scuotere energicamente il capo dinanzi al gesto d’abbandono che minaccia “farei meglio a tacere / difatti taccio / credo che sia meglio / in fin dei conti”.
Si prende fiato, e la corda caricata dell’emozione accumulata ci spinge a ritornare a leggerla e leggerla ancora. Ad annuire forte, vittoriosi e arresi alla sua penna elegante che ci assicura “Sono colei che cura.”
Rita Mazzocco
Lascia un commento