Questa silloge poetica, singolare fin nel titolo, procede da un progetto solido e coerente. Un progetto al quale Giuseppe Paiano rimane rigorosamente fedele in ogni sillaba dei brevi componimenti che costituiscono l’opera.
A una prima lettura (perché Palabraxas richiede l’impegno di una rilettura), ci si trova di fronte a un percorso iniziatico, raccontato nello stile impersonale, concentrato e gnomico delle massime sapienziali. Ma il discorso religioso, o esoterico che voglia apparire, è un raffinato pretesto. Il vero argomento dell’opera è il linguaggio poetico, che ricorre ad un tema alto per costringersi a una disciplina estrema, per purificarsi.
Messo in campo il congegno mimetico, il linguaggio prosegue da sé nella propria avventura: l’autore può eclissarsi, scomparire; a meno di comparire, forse, nella figura del proscritto che fonda una nuova città.
Posso testimoniare che non c’è identità tra la persona del poeta e quella del profeta che pronuncia questi testi; semmai accade qualcosa come un ventriloquio. Il poeta è troppo compromesso col linguaggio, mentre il Pro-feta, secondo l’etimo, è “colui che parla per primo”, e la novità della sua parola rigenera, rifonda il mondo.
In questa rifondazione, niente-di-meno, consiste il progetto poetico di Paiano. Compito della poesia è ridare spessore e dignità alla parola degradata dall’eccesso di comunicazione, rigenerarla, riscattarla dal vuoto semantico, dal blablà delle piazze virtuali. Per inciso, Giuseppe Paiano, come anche il suo prefatore, non hanno un profilo Facebook. Non amano (mi si dice) i social network.
G. M.
Prefazione
“Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo “chiaro”, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas, il Dio che era Dio e diavolo insieme ” (Herman Hesse, Demian).
Palabraxas è la fusione di due termini, lo spagnolo “palabra” (parola) e “Abraxas” (di incerta etimologia). Con quest’ultima si identifica il sommo Eone (Dio) contrapposto al Demiurgo, la potenza maligna che gli gnostici individuano nel Dio dell’Antico Testamento.
Il titolo dell’opera suggerisce che sia proprio Abraxas a manifestare la sua volontà, ad ammonire e guidare il suo interlocutore; ma se è vero che la ricerca dell’Assoluto trascende il mondo terreno e mira a esistenze impalpabili, è altrettanto certo che questa astrazione ha come punto di partenza l’Io che si è rivelato a se stesso, che è rinato prima della morte corporea. Questa continua ricerca di ricongiungimento ai piani superiori dell’esistenza, alla luce divina o Pleroma, deve tentare di risolvere il conflitto eterno tra interno ed esterno, tra anima e corpo. Un cammino che è già stato scritto in noi, che non può che appartenerci.
Chi è Abraxas? Quanto è viva in noi la sua parola? “È l’ermafrodito del primissimo inizio. È il signore dei rospi e delle rane che vivono nell’acqua e calpestano la terra, che cantano in coro a mezzogiorno e a mezzanotte. È la pienezza che si unisce col vuoto. È il santo accoppiamento, è l’amore e il suo assassinio, è il santo e il suo traditore, è la luce più splendente del giorno e la notte più oscura della follia. Vederlo significa cecità, Conoscerlo è malattia, Adorarlo è morte, Temerlo è saggezza.” C.G. Jung, I Septem Sermones ad Mortuos).
Al di là delle tradizioni e della storiografia, sentiamo il forte bisogno di astrarci dalla schematica categorizzazione di un’entità così colma di significato poetico. Abraxas è il superamento del dualismo, la voglia di pace nell’interminabile guerra esistenziale che vede l’uomo come un viandante senza meta, la sintesi ultima di ogni pluralità reale o astratta. La continua contrapposizione nell’opera di termini opposti vuole significare questo tentativo di sintesi totale; il tono profetico predominante lascia spazio a intime analisi interiori, indicando l’esistenza di un forte legame tra l’esistente e l’impalpabile. Ma l’Assoluto produce una forza d’attrazione tale da sbilanciare questo legame: chi vive imprigionato nel corpo non può fare altro che cedere all’istinto di ricongiungimento al Dio. Per riuscire nel suo intento il viandante ha bisogno di trovare la pietra d’angolo, quella che da sola può reggere la cupola che racchiude l’intera esistenza, il velo che copre il meccanismo che ha schiavizzato l’umanità a vivere nell’imperfezione. La contemplazione è fine e mezzo del cammino del ricercatore, il quale si serve della parola di Abraxas rivelato per costruire la Verità pietra su pietra. L’uomo assorbe i propri fallimenti e diventa parte del circostante, non più vittima inchiodata alla croce, ma essenza necessaria alla vita. Diventa egli stesso la pietra d’angolo cercata per un’intera esistenza, scopre la natura del legame con Dio; risolve la pluralità che non è più motivo di frustrazione esistenziale, ma mosaico variopinto a cui ricongiungersi. Ma per far questo bisogna liberare l’anima dai demoni creati dal Demiurgo. Il conflitto è dunque solo in apparenza risolto; il cuore deve lottare con la corruttibilità del mondo materiale, ma si sente come disarmato in balia delle bestie maligne. Deve e vuole liberarsi della materia che costituisce il circostante e se stesso, per poter “amare come un cuore senza vincoli sa amare”.
Solo gli assetati, coloro che avranno lavorato intensamente berranno l’acqua del pozzo, simbolo di saggezza narrato nel Vangelo di Tommaso. “Egli disse: – Signore, molti sono presso il pozzo, ma nessuno è nel pozzo. Gesù disse: – Molti sono coloro che stanno alla porta, ma soltanto i solitari entreranno nella camera nuziale.” (Vang. Tom.)
Alessio Desaparecido
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