Questi sonetti di Renato Ornaghi nascono da un duplice amore. Il primo è quello per la sua terra e in particolare per una città, Monza, ch’egli considera sua, come spiega lui stesso nell’introduzione, pur non essendo quella in cui è nato. Ciascun sonetto guida infatti il lettore come in una specie di giro di ricognizione o sopralluogo, sia temporale che spaziale, attraverso la città, di cui amorosamente appunto – e perciò anche dolorosamente – scruta e coglie, accanto alla bellezza, anche i lati oscuri, macchiati dal male di vivere e da una realtà nuova, immemore e disordinata che la sfigura.
Si tratta di tre gruppi di otto sonetti, che come in cadenza si chiudono o si potrebbe dire confluiscono nei tre dedicati alla Cattedrale: non il bellissimo Duomo di Monza, ma la verticale sublime vegetazione nel cuore del Parco voluto da Eugenio Beauharnais in epoca napoleonica, isola luminosa di una città che parrebbe minacciata nella sua ragione.
Il secondo amore (pari al primo) è all’origine della scelta del sonetto adottato qui da Ornaghi. Non si tratta del sonetto classico della nostra tradizione, ma di una sua forma in qualche modo dissonante, che fa consapevole uso dell’endecasillabo atonale secondo la norma stilistica ed espressiva individuata da Ornaghi in Giovanni Raboni, il suo poeta, oggetto di lungo amore e studio.
A rendere ragione di questo amore e di questa scelta, Ornaghi pubblica in calce alle sue poesie una preziosa appendice, originale e interessantissima, che spiega, esemplifica e analizza in maniera puntuale il concetto di atonalità nella metrica poetica di Raboni, mettendola in correlazione con l’atonalità della musica dodecafonica.
La presenza di questa Appendice è parte essenziale di questo libro, perché – oltre ad essere di per sé suggestiva e stimolante – getta una luce retrospettiva sui sonetti che la precedono inducendo il lettore a ritornarvi con nuova e più avvertita sensibilità.
Anna Setari
Commenta
Dello stesso autore:
Luisa Ferrero says
Inizialmente si fa un po’ fatica a leggere, ma poi, proseguendo nella lettura, l’orecchio si abitua al ritmo. Certamente la gabbia metrica è ancora più stretta che nel sonetto fatto di endecasillabi “normali”, quindi a volte il lessico è un po’ straniante. Non è detto che questo sia un pregio, ma neppure è detto che sia un difetto.
Il tutto è originale. Anche se si tratta di una strada già tentata, che io, comunque, non conoscevo.
Giovanni Monasteri says
La gabbia metrica (e anche la gabbia ritmica, in questo caso) costringe, ergo aiuta, a non usare espressioni e lemmi scontati. Aiuta a scavare nella lingua.