Felice e feconda, oltre che originale, questa idea di Renato Ornaghi di raccogliere i proverbi della sua Brianza associandoli, con effetto straniante e suggestivo, agli haiku giapponesi.
A prima vista i due mondi, Brianza e Giappone, appaiono difformi, non fosse che per quella solerzia del fare e industriarsi che oggi li accomuna e li pone in sempre più stretto contatto di scambi. Ma tale aspetto si riferisce a un Giappone contemporaneo, per molti versi occidentalizzato, caratterizzato dal rapido e continuo cambiamento – un Giappone che in verità non sembra prefigurato dai poeti degli haiku, assorti nella contemplazione del paesaggio, la cui infinita e cangiante mutevolezza nel trascolorare continuo di ombre e di luci e di stagioni non è che aspetto della perennità immobile e sospesa della natura.
I proverbi al contrario hanno un carattere eminentemente pratico: riflettono uno sguardo volto a cavare dall’osservazione un consiglio, un giudizio morale, una previsione economica, una ironica sapienza condivisa. Rimandano ad un mondo popolare, prevalentemente contadino, dove non esiste il singolo autore, ma il coro della gente del luogo e delle generazioni, di cui essi non sono che un’espressione collettiva. Anche questo li differenzia dagli haiku, che invece, non solo sono poesia d’autore, ma alludono a un ambiente raffinato di alta cultura, di esasperato tecnicismo: i poeti dedicavano l’intera esistenza all’apprendimento, all’esercizio e al perfezionamento della loro arte, definita da un sistemata di regole minuziose dal carattere quasi religioso – un’arte che spesso diventava virtuosismo, e solo in alcuni, quelli che giungevano ad assimilare la tecnica fino nel più profondo del loro essere, svettava in purissima bellezza di poesia. Se l’autore di haiku in qualche modo si può dire che scompaia anche lui come soggetto nelle sue composizioni, è perché lascia che siano le cose a parlare: non scompare nell’ambiente umano e sociale, ma nel fluire enigmatico della natura, nel suo infinito frammentarsi in linee in colori in sussurri.
Insomma, i generi sembrano divisi da differenze profonde.
Eppure questa analogia o somiglianza, questo ponte che Renato Ornaghi ha voluto gettare tra queste due forme di espressione, i proverbi della sua terra e gli haiku del Giappone, ha una sua forza poetica che finisce col persuadere.
Non si tratta soltanto della forma esteriore, della brevità fulminea dei tre versi che caratterizza entrambi i generi, anche se questa è di sicuro la cosa più evidente – e sorprendente anche, perché fin quando lo sguardo di Ornaghi non ce l’ha fatta notare, non vi avevamo mai badato. Non si tratta nemmeno soltanto del fatto che, volendo, vi si possono trovare, sia pure trattati diversamente, dei temi comuni: l’osservazione, per esempio, delle stagioni, dei mutamenti atmosferici, del ritornare dei mesi e dei grandi eventi della vita, le nascite, le nozze, la felicità e la disgrazia, la malattia, la morte. Ciò che rende suggestivo e poetico questo singolare accostamento dei proverbi agli haiku è qualcosa di più sottile e penetrante, che va al di là delle somiglianze/differenze particolari: si tratta del sentimento cui leggendoli si è infine indotti.
Il lettore occidentale degli haiku, infatti, mentre riconosce in tali composizioni la qualità e la grazia della Poesia, viene contemporaneamente preso dal sospetto che la propria lettura non sia in fondo che un adattamento, una riduzione della diversità ed estraneità di un mondo che non gli appartiene a qualcosa di più familiare e noto: una lettura che ne tradisce il senso o comunque non lo attinge. Questo accade di fronte a qualsiasi testo che si legga solo in traduzione, ma si sente più acutamente quando l’originale appartiene a culture molto lontane, di cui sappiamo poco e, quel poco, spesso di seconda mano .
Il Giappone, in particolare quel Giappone antico in cui ebbe la massima fioritura lo haiku, è diviso da noi da pianure e deserti e mari e secoli di distanza. Non abbiamo nella mente le immagini degli ambienti e della cerchia entro la quale quella poesia nasceva. La maggior parte di noi ignora del tutto la lingua giapponese, non ne distingue i suoni, osserva i suoi segni grafici con l’occhio di uno che osservi uno spartito senza conoscere le note musicali, cogliendone, sì, una bellezza e armonia estetiche, ma non ciò che in realtà rappresentano, il loro potere evocativo. Ora, una parte del fascino degli haiku sta proprio in questa oscillazione tra il riconoscimento di un sentire poetico comune e universale, che va al di là dei confini spaziali, temporali e culturali e in cui ci ritroviamo, e la contemporanea coscienza di essere sempre al di qua della soglia di un mondo al quale restiamo stranieri. Questa sospensione tra l’interno e l’esterno, questo stare al confine di un mondo che possiamo solo intravvedere come attraverso sottili fessure, si traduce in una sorta di nostalgia per quella alterità che ci è preclusa.
È proprio qui, in questo sentimento sospeso tra riconoscimento e distanza che si stringe il nodo che accomuna poeticamente i proverbi agli haiku.
La Brianza contadina, con le sue osterie, le sue feste, i suoi santi, i suoi uomini che osservano il cielo per interpretarne gli umori, gli sposi per tutta la vita accomunati nella felicità o infelicità della loro sorte, i bambini che giocano i giochi dei loro nonni, i giovani destinati a ripetere i loro vecchi entro lo stesso scenario di pianure e di monti, la familiarità con le morti e le nascite, i raccolti e le carestie, è anche essa in fondo un mondo remoto. Anche il suo dialetto, benché familiare ai parlanti del luogo, la circoscrive e distanzia nello spazio geografico e temporale, ne fa un mondo della memoria. Ma si tratta di una memoria che, sebbene ancora sia memoria vissuta, e direi quasi carnale, di molti dei suoi attuali abitanti, già è sul punto di mutarsi nei nipoti in memoria da ricostruire e re-immaginare.
Al di là del grande godimento che riserva al lettore, questa raccolta di proverbi – testimonianza dell’ appassionato amore di Ornaghi per la sua terra – delinea il ritratto di una Brianza che pare allontanarsi in una luce di nostalgia quasi quanto il Giappone con la sua festa dei ciliegi.
Anna Setari
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