Se non ci fosse il vernacolo, bisognerebbe davvero inventarlo. E ognuno ovviamente dovrebbe praticare e difendere il proprio; ma il sottoscritto, pur brianzolo credente e praticante della lengua del scior Carletto Porta, si è sempre sentito irresistibilmente attratto dalle cadenze gonfie di ponentino della parlata romanesca. Quante volte mi sono letto, riletto e straletto i sonetti del Belli! Sonetti davvero carichi di ineluttabilità, fotografie di un mondo in disfacimento quale era la Roma papalina del XIX secolo.
Ed eccomi qui dunque con questo carico di affetto per tale parlata, che si sposa magnificamente con l’endecasillabo italiano e col sonetto di Jacopo da Lentini, a commentare la poesia di Anna Maria Marinuzzi, poetessa romana non nel sangue (essendo lei romana d’adozione), ma per converso romana tanto, tantissimo nel cuore.
Impiegheremmo dei giorni se solo qui ci limitassimo a rappresentare la bravura tecnica di Anna Maria nel modellare col suo romanesco le forme della quotidianità – romana e non – disegnate dai suoi versi o ritrasposte nelle sue rare ma splendide traduzioni dai classici. Si legga ad esempio, a mo’ di aperitivo, questa scheggia di traduzione oraziana:
Bévete ere vino bono e accorcia er tempo
de le speranze tue. Mentre parlamo
l’ora core, ce sfugge, già è passata…
Nella parlata romanesca il concetto severo del Carpe Diem si arricchisce di seducente dolcezza, di quel colore caldo e struggente che i palazzi romani assumono nell’ora del tramonto. Magia dei versi, magia di una capacità di modulare il ritmo sull’onda del sentimento, una bravura poetica che Anna Maria Marinuzzi massimamente possiede e certifica quando si libera delle catene dell’italiano e scrive nella sua madrelingua adottiva. Ma non c’è solo questo nella poesia romanesca di Anna Maria.
Il Belli una volta scrisse di se stesso e della sua poesia:
“Il popolo è questo e questo io ricopio“. Ecco, la prima cosa che mi viene da dire leggendo Anna Maria in romanesco è che mi pare di ascoltare nitidamente la voce di una donna popolana, di una cittadina che non censura gli aspetti più deteriori della realtà odierna ma li mette a nudo, in una sorta di neorealismo poetico che la lega assai – idealmente e programmaticamente – per l’appunto alla poesia di Giuseppe Gioachino Belli. Poesia neorealista dunque, che getta squarci di luce quasi caravaggesca sugli aspetti anche minimi e quotidiani del nostro vivere, sulla difficoltà del dover essere cittadina romana e italiana in questa seconda Repubblica mai veramente nata.
E’ poesia neo-belliana la sua, potremmo dire. Ma non solo. Nei versi romaneschi di Anna Maria Marinuzzi v’è senza dubbio questa voglia di indagare e fotografare il nudo vero, con una sorta di insistenza al particolare e al quotidiano che è in effetti tipica del Belli, ma c’è pure un elemento aggiuntivo, uno scarto di novità che vale la pena di rilevare. Mi riferisco alla femminilità che traspare sempre alla lettura. Dalleistantanee della realtà romana stilla sempre – anche nell’amarezza delle situazioni più dure della vita – una sorta di garbo sornione, di sensualità e di dolce humour misti a sano pragmatismo, tipici di una donna abituata a gestire le difficoltà di ogni giorno, del lavoro e della famiglia, con spirito propositivo e disposizione all’ottimismo.
Questa la peculiarità della poesia di Anna Maria: concretezza femminile in salsa romanesca, con una lettura della realtà sempre mediata da un sottile velo di ironia, che strappa il sorriso specie in quei momenti in cui la poetessa guarda il genere maschile con occhi di benevola superiorità, convinta di incarnare nei confronti del povero tronfio maschio di oggi il vero sesso forte.
Ma non è una lettura sessista, perché l’uomo (il maschio) nella poesia di Anna Maria è comunque riscattato dal legame amoroso, in quell’eterno incontro-scontro vitale tra Yin e Yang, che dai tempi di Adamo ed Eva è sempre presente nella relazione tra i due sessi. Una dura ma bella battaglia, quella dell’amore tra uomo e donna, che – così mi è parso di intravedere in questi lussureggianti versi – nella poesia romanesca di Anna Maria Marinuzzi vale alla fin fine sempre la pena di combattere. Purché, ovviamente, la si vinca.
Renato Ornaghi
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