Se ad una raccolta di versi si affida un grano di poetica, una domanda, un modo di avvertirsi e di vedere, una prova di voce e di parola, credo che MELE ROSSE sia un contenitore denso di sensi, di rotte e di suoni, battello prezioso che approda ai Feaci in un passaggio dalla carta (Kepos edizioni, Roma 2004) al web.
Sulla soglia del titolo, Luigi Manzi (poeta che da sempre interpella la funzione vitale della scrittura, “il più bravo fra noi”, dice Elia Malagò, alludendo ai giovani di Quinta Generazione), invita alla sua poesia sul filo di una suggestione cromatica e corposa, quasi a rincorrere dei frutti rotolanti, scivolati dalle pagine di una delle sue prime opere:
Una donna solitaria sale sopra l’erta / col suo cesto di mele in cima al capo. (daMalusanza, Una strana luce)
Sono mele-versi che, nelle interne sezioni della raccolta, scendono da Colline e Alture, forse da Astri; conoscono i Fuorivia, fra l’Afa e il Salto, fra pause e scarti, fra guizzi e ombre, prima di giungere In vista del mare.
E non si tratta di un viaggio di superficie.
La poesia, fedele alla fibra/ erratica del cuore, è un andare a sentire e a toccare, un lasciarsi calare nelle cose, che diventano stazioni di sosta e di osservazione:
Percorro la linea, mi fermo / in ciascun nodo, finchè trovo / lo spiraglio.
E’ un sondare tutte le direzioni, tutte le intermittenze del buio e della luce (Scrivo del sereno e del notturno), cogliendole dall’esterno e ascoltandole dall’interno, sulla muriccia dell’io profondo:
…Ascolto dal centro / e, lungo il sentiero, punto dopo punto, / discendo facile e leggero.
In questo percorso, la poesia guadagna un’aderenza etica alla vita e ne diviene intelligenza: capace di intus-legere e di inter-legere, ne è conoscenza affidata a sensi lunghi e ne è coscienza, mai esonerata dalla ricerca.
Si fa poesia che accoglie le domande e che ha la forza vitale di formulare, anche solo per montaliane categorie negative, risposte, schegge di verità a ‘bassissima definizione’:
Dunque tu dammi una ragione / per restare sopra questa / terra lunare di massi / e di tufi, calva ovunque. / Forse mi conforta l’ombra / disseccata che getto: / non sono nebbia né nuvola.
Si tratta di brevi rivelazioni che sono le cose a liberare, al buio o quando / sono meno illuminate.
Sono spesso lampi, balzi argentini di lepre, che deformano la percezione del reale o danno sgomento, come quando, sul nero precipizio / restiamo per un attimo sospesi, / scampati alla furia.
O come quando, ancora, dalla sommità di un ponte che si apre, l’incauto guarda verso il basso sospeso al suo istante. E, in questo sguardo incerto e inquieto, diviene la figurazione metaforica di chi, solo per poco, / tocca nel fondo/ la verità che emerge.
Sono contatti di conoscenza che sovvertono la logica successione degli eventi: capovolgono e lasciano capovolti, sospingono sul terreno e nello sguardo della donnola persa e sbigottita nel blu dei fari.
Consentono il salto da una dimensione all’altra: la corsa a perdifiato / dal chiuso all’infinito, sollecitata, nell’acquario del dormiveglia, da un fruscio di stoffa, da una porta appena disfiorata.
Sono attimi: quelli del destarsi in un tempo estraneo o dell’assistere all’eclissi, momenti in cui, con un soffio brevissimo, un tempo primordiale / versa il buio nelle ossa e mineralizza l’osservatore.
Piace pensare che questi lampi (o ‘crepure’ o momentanee disgiunzioni dell’assetto formale del reale) siano il regalo di una poesia capace di artigliare la schiena / irremovibile del mondo.
L’artiglio non lascia solo traccia o segno: penetra e cava sangue, interrompe, apre e scompone.
Se il mondo è irremovibile nell’ordine intrinseco e necessario delle cose (poiché ogni cosa ha un luogo proprio, / un trono), la poesia ne incide profondamente la configurazione: lo restituisce mosso e brulicante di figure e di gesti, di colori e di presenze, reali e simboliche, come a disaggregare, nella apparente compattezza di un tessuto, la singolarità delle fibre e dei movimenti che lo producono.
Ogni aspetto (umano o animale, vegetale o atmosferico), ogni età si accende, pulsa e fiorisce, nella brevità di linee d’azione che operano fianco a fianco, nel lavoro e nelle anse del paesaggio: e così, se gli operai dilavano marmi, / piantano aste per lampade nuove, / si muovono come funamboli, il sauro trotta, facendo sobbalzare le limpide sfere dei meloni, le donne si affacciano, i ragazzi corrono e si tuffano e sguazzano nell’acqua, le tortore gorgogliano, le lepri cercano la fuga, la lucertola squama e un ginepro si scuoia, mentre una voce offre / pesche sanguinose e albicocche.
Verrebbe voglia di censire queste presenze, catalogarle in bestiari e in verdi erbari, in elenchi di gesti, di sfumature e di sonorità.
Sembrano tutte scie centrifughe, ma in realtà riconducono ad uno sguardo che coglie e accompagna, quello di un io poeta (di carne sui bordi / e dentro vegetale) che, dislocato in punti diversi dello spazio, osserva, disegna, col dito intinto nel cielo, annusa, assapora e dalla confidenza con la natura ricava la lezione del tempo (dal fiore vorrò conoscere il futuro) e del declino: benedetto è il declivio / dove la forza degrada più lenta / e con grazia. / Tale è la legge scritta nel cuore/ di ciascun fiore e frutto.
La restituzione è in forma di notizia, di parola data, ospite d’infiniti transiti di significato eppure esatta; parola che perde l’opacità dell’uso per dare identità e si affida al nome perché il nome ha la forza etica della distinzione: insegna a riconoscere, a fermare un referente annidandosi anche nel grembo mobile del verbo, fra colli che s’ingigliano e gru che vanno aquilonando.
Zena Roncada
(nota di presentazione a La luna suburbana, 1986)
Ho conosciuto Manzi tanti anni fa; credo fosse nel 1968: nella redazione di Nuovi Argomenti; eravamo poeti inediti o quasi tutti e due, e Enzo Siciliano ci fece conoscere. Pensava che avessimo delle affinità: forse sbagliava, o vedeva più in là di noi. Però fra me e Manzi rimase una buona amicizia; qualche volta ci si vide, e io andai in pellegrinaggio al suo bel paese; lui aveva deciso di vivere con altro che la poesia che diventava così per lui una pratica segreta, forse non tanto segreta, di cui, con la gente, vergognarsi un po’. Poi l’ho perduto di vista; ogni tanto mi chiedevo che fine avesse fatto. O se avesse continuato a scrivere; ma la mia domanda rimaneva senza risposta perché di Manzi si erano perse le tracce. Eppure le sue poesie mi avevano sempre affascinato, anche perché erano opposte e antitetiche alle mie, pur privilegiando lo stesso l’io. Le sue poesie nascevano dalla campagna, dalla contemplazione della natura, avevano di fatto uno slargo verso l’ideale, anche se corroso da un sentimento terribile del tempo che passa, che le mie poesie cittadine non hanno. Gli invidiavo questa sua capacità di immergersi dentro il creato per tessere, da ateo forse vissuto nella religiosità cattolica, l’elogio del creatore. Io mi sentivo disperato e basta; solo e sconfitto. Pensavo invece che Manzi fosse in compagnia della natura e delle sue bellezze per lenire il suo dolore di vivere, il suo malessere di poeta.
La tradizione in cui si ascrive Manzi è difficile da individuare; il visionarismo panico non è mai stato proprio della poesia italiana, se si eccettua forse certo D’Annunzio e Campana; la tradizione ermetica, quella neorealistica fino al trionfo metalinguistico della neo-avanguardia hanno minato la possibilità del poeta italiano di procedere per illuminazioni invece che per ragionamenti e glosse illeggibili; così Manzi è in una via di mezzo: da una parte vorrebbe tener testa alla sua capacità di visione, dall’altra vorrebbe addormentarla in nome di uno sperimentalismo che è proprio della stagione piena di fermenti che va a cavallo fra gli anni sessanta e settanta. Può, Manzi, non scegliere per virtù di poeta ricco e sanguigno che le mode non possono guastare; pure non si può negare che, figlio del suo tempo, il poeta abbia subito il fascino non solo della poesia classica, ma anche dell’esistenzialismo ideologico di quegli anni. Finché insomma la funzione del poeta gli è sembrata svuotata di senso, e lui, come Rimbaud, è stato tentato dal silenzio. Non per opportunismo, ma perché in effetti si erano diradate le possibilità del dire. E sono aumentate le possibilità del fare. Così Manzi si è sottratto santamente alle leggi della società letteraria, ha sfidato l’eterno scomparendo e riapparendo al momento giusto, quando la sua poesia che appare tutta insieme può già correre il rischio di essere storicizzata. Storicizzata da chi? Da colui il quale pensa che la poesia sia la ricerca della verità, e non solo un gioco sterile e bugiardo del linguaggio. Anche se poi questa ricerca ti esclude, come ha fatto con Manzi, dalla carriera. Ho già scritto molte volte che per un poeta in Italia c’è una specie di “cursus honorum” da seguire…
Ma non è questo importante. Importante è che da un’estrema desertica altura Manzi senta il bisogno di mettere in discussione se stesso come individuo e come poeta. Le sue poesie infatti hanno una ricerca squisita ma impietosa dell’autoanalisi. Siamo di fronte a una poesia intelligente, non soltanto lirica. Il modello più preciso potrebbe essere Attilio Bertolucci. Ma anche Saba. La psicoanalisi infatti non è soltanto un fatto esteriore culturale, ma diventa una dimensione dell’anima, e insieme alla poesia combina in sé le ragioni della vita. Per questo il poeta si accanisce a cercare la verità: la verità è lo spettro suburbano e il vegetale mattino pervaso da un docile piegarsi al miele del mondo. Non sappiamo quanto questa poesia possa essere capita in un mondo in cui i valori sono tutti degradati. Manzi ha la forza moralistica di un Luzi, di un Paul Celan; non gli manca il mestiere, solo si scontra con una società letteraria che ha smarrito la direzione, la bussola è impazzita, la nave fa naufragio. Occorre far finta di lavorare in un mondo vuoto dove i Tondelli e i Busi di turno non abbiano udienza. Si spiega così la disperazione del poeta: il suo corpo che è vessillo indicibile e immenso. Più chiara nella notte s’avverte la canzone segreta cantata dalle sirene. Fra queste sirene si annida il poeta che vuole confrontare la sua morta voce a quella della sciagura. Ma le sciagurate non rispondono, l’Ulisside ubriaco rovescia la zattera, la poesia tristemente affonda, non ha salvato il mondo. Né il mondo vuole essere salvato, e la Morante ci guarda da lontano intristita sapendo che la poesia ha fallito i suoi scopi, il suo compito solenne e incerto, che è quello di innalzare l’uomo e non abbassarlo.
Così un poeta come Manzi paga la sua stupenda libertà con la vera emarginazione, che però permette alla sua poesia di diventare tale, e lasciare al palo tanta poesia “ufficiale” riverita ai concorsi e ai premi, ma nata morta, priva di anima e di musica.
Dario Bellezza
(nota di presentazione a Mele rosse, 2004)
Ti vedo oggi come uno dei pochi poeti dall’etica fulminante chiusa nelle piccole azioni, che proprio perché piccole vanno contro ogni miserabile minimalismo. Poesia, la tua, come arma chiara e naturale (e perché non divina?) per recuperare la terra oggi perduta, che non sembra ormai più recuperabile dopo il canto “desolato” di Eliot. E vogliamo toccare, tanto per non farci accusare di partecipazione sentimentale, l’aspetto fondamentale della tua poetica, ad di là di ogni eco che non c’interessa rimandare dalla valle di questa società letteraria? Il disegno. Caro Manzi, tu ridisegni l’anima delle cose in questi epigrammi e ci inviti a “spiccare il salto” e a non riemergere dal mare se non mutati sotto le grida di chi sta sopra la riva.
Gian Piero Bona
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