Per ogni voce che dentro l’ombra grida
(A Fabrizio Centofanti, scritture in margine di Francesco Marotta)
1. Parli dell’ombra. Della nostalgia di luce che dentro l’ombra grida. E racconti al silenzio tutte le parole del cammino. Come chi chiama accanto, ad ogni passo, l’assenza che non lascia impronte sul sentiero. E offri ali. Strappate al giorno in regole di pianto. Non per spiccare il volo oltre gli sguardi, ma perché siano un lascito d’amore, una memoria che dà riparo al cielo, alle sue acque.
2. E’ vero. Tu sei colui che accoglie ogni voce. Il sibilante afrore degli autunni e l’argilla dove maturano i volti segreti di un giardino. Il tuo nome è un sogno. Migrato un giorno al richiamo delle fonti per essere specchio delle nevi e del disgelo. Lavacro di occhi che affiorano dal fango. Ora è una vela che arde in lontananza. Come un faro che sul confine regge lumi ai morti. Il fuoco che stringi tra le labbra, chiede alle mani di disarmare il pane. Imparare ad allevare l’alba come un figlio.
3. Vegliare il tempo è custodire l’unica dimora che si fa riva e porto. Il segno che contiene la cifra segreta del risveglio. La parola che strappa al corpo stimmate di attesa. Che regge al desiderio e si fa spasimo, come un muro che sbarra il passo al rigagnolo di muschi che l’assedia. Che lo piaga. Solo chi è senza cielo, pur possedendo le chiavi di ogni cielo, reca in sorte la fiaccola di un grido. La voce priva di alfabeto che sa nominare gli astri uno ad uno.
4. Anche i tuoi angeli hanno mani impastate di cenere e deserto. Nelle pupille, il sangue di chi ha vegliato, nel chiostro di un ricordo, il fuoco di una domanda senza eco. Il rogo degli alberi e dei fiumi, dei giorni consegnati a una luce fraterna che non muta. Sono angeli naufraghi esercitati alla pietà di un grido. Figli delle notti dove anche l’orizzonte sembra straniero al cielo che lo cerca. Come una parola che si trascina, di dolore in dolore, fino alle labbra da cui si parte il vuoto che ferisce.
5. Chi ti regalò l’inquietudine del verso col quale navighi sul filo degli abissi, se avevi con te, stretto dentro il palmo, il sigillo che ricolma lo sguardo di certezze? In quale mattino senza nome, abitato dal graffio inudibile dell’ombra, prese il largo il tuo canto che varca stagioni di ferite? Forse fu lo stigma vivente della pioggia, la preghiera nuda di un ramo che si offre all’abbraccio dell’acqua. Forse la speranza di seminare echi nelle terre ammutolite dell’esilio, essere voce che racconta il giorno alla pupilla cieca delle pietre. Tu che oggi ti accompagni a chi si lascia il lume di ogni morte trascorrere tra i pori, tu sai le rotte che guidano gli uccelli ai sacrari inviolati dell’aurora.
6. Scrivi di Osip, e laceri la tela spiegata dei miei sensi. Ti apri un varco tra i silenzi e le piaghe di un’esistenza che puoi solo immaginare. Vieni a smarrirti nei solchi di una terra che dorme sotto il fuoco. Ti accolga l’abbraccio della lampada muta che accendo ogni notte sulla soglia. Ti accolga il vento che dalla soglia sussurra alla mia polvere. Che mi riporta le voci mai placate dei morti che gridano giustizia dal ciglio ferito dei miei occhi. Questa è la casa, qui è la tavola che invecchia e che rinasce a ogni pasto. La mensa di spighe acerbe imbandita dal transito degli anni. Guarda. Non si consuma l’olio, se arde nella coppa delle mani la luce fraterna degli sguardi.
Francesco Marotta
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