Una delle prime cose sulle quali mi soffermo quando mi trovo davanti ad una raccolta di poesie è sicuramente il titolo. Potrebbe sembrare un gesto superficiale e/o effimero, d’altronde il titolo di una raccolta è generalmente soggettivo, suggerito più da ragioni intime e da percorsi meramente personali che da motivi squisitamente intellettuali. Succede altresì che spesso l’autore si limiti a titolare il testo con il verso di una delle tante poesie inserite o che semplicemente usi la generalistica espressione di “Poesie”. Nel caso della raccolta di Marina Raccanelli il titolo “Luci di confine” non solo è un’utile indicazione per esplorare la sua poesia, ma è anche, oserei dire soprattutto, il codice precipuo per decodificarne il messaggio. “Luce” è un semema che fa riferimento al campo semantico della percezione visiva, dunque già veniamo a conoscenza del fatto che l’autrice vuole condurci a “vedere” la sua realtà interiore attraverso le cose e i fatti che “racconta”. Ma d’altra parte “Confine” è un lemma che si riferisce ad un’opposta area semantica: è un limite oltre il quale è l’ignoto, il buio, l’incertezza, la fine. Eppure le due aree all’apparenza ossimoriche disvelano una possibilità di convivenza che di fatto scopriamo attraverso il prosieguo della lettura sin dal primo testo. “Androni bui” ci accolgono per immergerci nell’atmosfera di un ritorno ad un luogo-metafora, dove il presente si confronta con un passato forse neanche vissuto se non nel racconto di altri. Il buio è allora l’antro di una memoria vuota che ha bisogno di essere colmata. Non c’è nostalgia o rimpianto, solo una contemplazione e la verifica che quel luogo e quel tempo sono davvero “stati”. La casa visitata è entità viva dentro la quale ritrovarsi e il silenzio è il custode di parole forse mai udite ma che è necessario inventarsi per ritrovare quelle radici che si sono perse (o che non sono state avvertite come tali) e per ricostruirsi un’identità nascosta fra i residui del passato (Parole dal sonno). I gesti del quotidiano hanno il respiro di eventi sfocati, raccolgono i frammenti di un’esistenza spezzata, di “un mondo che precipita lontano” (Quando passa la scopa); un oggetto che si frantuma riporta un segreto che si accende di luce perduta (Il bambino di vetro). E siamo al confine della prima parte della raccolta. Ma per oltrepassare la barriera occorre camminare. E Wandern, camminare, è la prosecuzione del viaggio poetico di Marina Raccanelli. Camminare nello spazio, nel tempo, nella musica. Ma attenzione, l’autrice sceglie il termine tedesco, che ha significati multipli, nella sua accezione di camminare per conoscere, per percorrere sentieri diversi con sguardo attento ai dettagli, quasi con l’intenzione inconsapevole di seguire le briciole di Pollicino per arrivare alle origini. Lo sguardo coglie luoghi e persone, memorie frastagliate, immagini che, imprigionate nella memoria, ritornano a vivere. E’ un pellegrinaggio fra natura e uomo, un’ascesa verso una dimensione “alta” che distanzi dall’umana fragilità. “(…) ma io devo salire/ oltre”, “(…) ma io devo arrivare/ in alto/ dove il bosco mormora cupo”.
Il vento di Fiemme, La Madonna della Difesa, Dialogo con la mamma, testi nei quali “ogni sasso ha rumore di zoccoli” e “passeggiare lungo il Corso di Fiume” è vertigine dopo la fuga.
E’ il canto dell’esule per il luogo d’origine, melos intriso di rimpianto per non aver potuto vivere appieno la propria genesi. La casa dove non sono vissuta respira di un’esistenza spezzata al fiorire dell’infanzia, cesura che si protrae nel tempo e si incide nell’anima generando una nostalgia struggente per ciò che poteva essere e non è stato. Il luogo non è dunque solo un appiglio fisico, ma un concentrato di fatti e di parole, di gesti e di cose: il battesimo nel Quarnaro, il suono del pianoforte, i versi di una poesia, il dialetto fiumano, i violini degli zingari, “nostalgia slava”, dolore di un ritorno impossibile.
Verseggiare elegante, quello di Raccanelli, che non si concede ai virtuosismi ma resta attestato su un sorvegliato filo d’attenzione per la parola. Luci di confine è una raccolta breve e intensa, che si misura con il vissuto attraverso il medium della poesia, immediata e spontanea ma diligentemente mediata dall’uso consapevole degli strumenti linguistici.
Anna Maria Bonfiglio
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