Le poesie di Anna Guala nascono dall’esperienza dolorosa del senso di precarietà che si scopre quando la trama, apparentemente tenace, degli affetti e delle relazioni di cui è tessuta la vita, improvvisamente si lacera e mostra le sue falle, interrompendo contatti quotidiani, spezzando i fili delle corrispondenze, strappando lo stesso tessuto interiore del sentimento di sé. Non sembrano esserci scudi, allora, dietro cui trovare riparo, né spugne / per cancellare il volto / assurdo e crudele della vita...
La raccolta è divisa in due sezioni in qualche misura speculari. Nella prima, intitolataDistacchi, si dice dello strazio delle separazioni, quando le persone amate scompaiono in modo improvviso e inaspettato (senza poter più dire,/ senza una mano che si levi/ per l’ultimo saluto) oppure migrano lentamente nell’esilio di una sofferenza inesplicabile, che crudelmente le sottrae, pur se ancora vive, ad ogni colloquio.
Nella seconda sezione, La gioia concessa, l’esperienza della separazione viene affrontata dall’altro punto di vista: quello di chi, un certo giorno della sua esistenza, scopre con sgomento, come diceva Leopardi, il verificarsi nel proprio caso di una regola generale, che in precedenza si conosceva solo idealmente o per approssimazione, sia pure sofferta: quella di essere solo in prestito alla vita. È il punto di vista di chi entra a far parte della schiera dei segnati, di quelli la cui esistenza è, come si suol dire, “appesa a un filo”: i vuoti a rendere/ in attesa della restituzione, il cui eroismo non riconosciuto e anzi quasi negato o rimosso, consiste nel ripetere i gesti comuni e quotidiani facendo finta di niente/ quasi fossero ancora vivi. Quelli che leggendo negli occhi degli altri la pietà e il disagio preferirebbero un mondo di ciechi per potersi illudere di essere ancora vivi. Quelli per cui l’unica gioia concessa/ è quella di essere vivi.
Le due sezioni sono unite da uno stesso sentimento di non-rassegnazione, intenso, tenace, espresso in toni miti, anche se spesso ironici, sempre profondamente umani, mai gridati, ma non per questo meno efficac i e penetranti.
Alla violenza delle lacerazioni Anna Guala oppone un’opera che si richiama a quella, non a caso tipicamente femminile, della tessitura e, anzi, della ri-tessitura. Le parole della scrittura assumono il senso di un lavoro di ricostituzione della stoffa strappata, una sorta di ricamo-rammendo – anzi, come lei dice, di rattoppo (sono frequenti in queste poesie, specie nella prima sezione, i riferimenti al tessuto e al casalingo rammendare) – che cerca di riprendere le maglie sfilate, di ricucire le lacerazioni, per tentare di contrastare il diradarsi e rompersi della tela attraverso i fili di nuove corrispondenze con quanto si è perduto al di là di ogni parola.
Se sono le parole a rifare la tela, non si tratta però delle “parole degli intellettuali”, o di quelle logicamente e ideologicamente ben sistemate, che parvero in gioventù sicuri riferimenti e difese contro ogni battaglia e tempesta futura, per poi rivelare la loro impotenza di fronte al dolore e alla sua inesplicabilità. La scelta va invece alle parole delicate degli affetti, di casa: perché queste sono le più simili ai gesti – quei gesti che costituiscono l’unica possibile risposta alla richiesta di chi soffre (lasciati bagnare la fronte con l’acqua fresca). È consapevole, l’autrice, che le parole d’amore (patetiche – quasi sempre, dice) sono un semplice scampolo di poesia, non una stoffa per abiti da cerimonia. Ma senza di loro l’aria/ di questa stanza angusta, sarebbe irrespirabile.
Mi alzo di notte (…) scrivo versi impellenti/ su foglietti volanti/ lasciati lì in bagno/ (…) con il vago sospetto/ di essere pazza furiosa. /Ma il tempo che resta/ è il mio bouquet di rose/ e io posso gettarlo/ come fanno – felici – le spose.
C’è come un’eco del lavoro di Penelope, in questo opporre parole e versi di amore alla durezza distruttiva della “necessità” che sembra non lasciare spiragli o “crepe nel muro” perché vi si possa intrufolare la speranza. Confinata in un angolo della reggia diventata di “altri”, assediata dalla realtà delle cose fino a essere resa quasi estranea al luogo in cui vive, Penelope tesse un discorso che, pur ripetendo modi quotidiani e ordinari, quasi banali, ha la straordinarietà di opporsi a quella necessità. Con impellenza, rubando notturnamente il tempo ai giorni che glielo sottraggono, Penelope “follemente”, riprende, in un certo senso, il filo che ristabilisce l’antica casa.
Nella stanza angusta, di cui parla Anna Guala, il sogno di stare/ come secoli fa/ in una grande casa/ con tutte – proprio tutte – / le persone care/ a sopportare beghe e difetti/ mentre vecchi e bambini/ incespicano intorno appare a sua volta come il disegnarsi, nel cucito delle parole, di una non reprimibile opposizione alla crudeltà della vita – ed è al tempo stesso il riflesso della modalità attraverso cui si ricostituisce, anche gioiosamente, il canovaccio degli affetti rinnovati e della vita presente. È sempre la bellezza/ a tendermi le sue trappole stupende/ ed è ancora l’amore/ in forme nuove.
Anna Setari
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