La nuova silloge poetica di Franz Krauspenhaar (FK per i molti che già lo conoscono) si presenta come un mix di testi che, sul piano contenutistico e formale, propongono una tensione volutamente irrisolta tra poesia e prosa.
La tensione si genera dall’attrito di due versanti tematici: da una parte riflessioni critiche nate da varie suggestioni di lettura, dall’altra un’autobiografismo che, se appare schermato da (ottimi) filtri letterari, restituisce infine l’immagine di uno scrittore schietto che ha una gran voglia di raccontarsi.
L’opera si suddivide in sei fastelli (o sezioni), ciascuno con un proprio titolo. La suddivisione, più che voler mettere ordine in uno zibaldone che tale vuole restare, suggerisce alcuni avventurosi percorsi di lettura. Nondimeno i vari “pezzi” si dispongono organicamente attorno ai due attrattori poesia-prosa, mantenendosi fedeli a un progetto di superamento e/o di commistione di codici e generi: un progetto coraggioso, ambizioso, che la stessa mescolanza di citazioni colte e meno colte propone e realizza.
Miscellanea, o satura lanx, dunque, come il titolo suggerisce (con in più quella K, a significare una sorta di marchio di fabbrica). E in effetti l’opera mantiene le promesse, è polifonica e ricca.
Aprono la raccolta due poecensioni, o recensioni in poesia che dir si voglia (il disinvolto neologismo è dello stesso FK): si tratta di testi che lo scrittore sceglie di non sottoporre a un eccessivo raffinamento in direzione della poesia, pur mantenendo alto il grado di sorveglianza stilistica. La scelta si rivela propizia all’agilità della scrittura, che sembra voler mantenere un’immediatezza quasi appuntistica.
La prima poecensione, la più notevole (anche per le sue dimensioni) è la rielaborazione di una vera e propria recensione – in precedenza apparsa su una rivista letteraria – sull’Autobiografia in versi di Marlene Dietrich. Il poemetto che ne risulta è un’occasione per carrellare avanti e indietro, come in un documentario, sulla vita della diva e sui mitici personaggi da lei raccontati: attori e scrittori immensi, che FK nomina con religioso stupore. Il poemetto si propone, infine, come un affettuoso calco, un compendio fedele in versi dell’autobiografia di M.D.; Inoltre, il riferire della frammentarietà ed eterogeneità del libro recensito (“pensieri, considerazioni, abbozzi di poesie, brevi ritratti”) fa pensare a una sorta di identificazione. Non sappiamo se FK arriverebbe ad affermare “Marlene Dietrich c’est moi”, ma certo l’annotazione sulla frammentarietà ed episodicità degli appunti della Dietrich sembra posta a significativo esergo.
Nella successiva poecensione la voce si sdoppia, si deforma in un falsetto, si ripiega su se stessa come a voler saggiare la propria eco, ed ha scarti e impennate e improvvise variazioni.
Le variazioni vocali sono una costante in Cocktail K. A tratti, come in “anonimo ex poeta”, nella pluralità di voci e di vocalizzi si inserisce un controcanto irriverente, che sembra voler irridere a ogni professione di fede letteraria, alle stesse ragioni del “fare letteratura”. L’intento di polemica antiletteraria è evidente in vari brani dell’opera. La poesia, irrispettosamente tirata giù per i piedi verso l’esistenza prosaica, prima che verso la prosa, si sporca di espressioni che, educatamente, potremmo definire… gustosi anatemi (“Curriculum, maledetto curriculum”). Gli anatemizzati sono personaggi che certamente non hanno mai avuto alcun commercio con la poesia e la letteratura, ma che verosimilmente hanno avuto a che fare col poeta, in una sua vita precedente: Direttori del Personale, padroncini, gretti cummenda degni di ogni maledizione e dileggio. E’ a loro che FK dedica il proprio esilarante, per quanto autenticamente incazzato, curriculum vitae.
Un discorso a parte merita il poemetto “Padre di guerra”, scritto – si suppone – a margine del romanzo di prossima pubblicazione “Era mio padre” (Fazi). Qui il poeta sparpaglia sulla pagina, micidiali come l’esplosione di una granata, schegge acuminate e dolorose di un racconto di guerra: una guerra che non è raccontata né dai vincitori né dai vinti, ma da un padre a un bambino. Ne risulta un’epica e pietosa testimonianza di una sofferenza individuale così grande da far apparire retorico, o persino ingiusto, ogni giudizio storico. Nella memoria del narratore il padre smagrito (“ape in divisa – lanciata/come un proiettile – nel fumo”, che spara a sua volta “colpi ciechi/come biacca bollente/sugli Ivan”) appare smisurato, come può esserlo l’eroe di un film agli occhi di un bambino; ma l’immagine positiva si deforma, si rovescia nell’altra, negativa, proposta dai film di genere, del feroce soldato nazista: “e quelli come te – nei motion picture/li vedevo sbraitare, in tedesco/perfetto, e finir male – minati, fucilati”. Altre scene si sovrappongono poi, a strati melmosi in cui la memoria fatica e da cui l’immaginazione vuole e non sa ritrarsi: di fame, di miseria, di ribellione impotente. Nel poemetto s’innestano, anche qui in controcanto ben assimilato, anch’essi come schegge sconvolte, versi di un altro poeta (“Cancellare le tracce”, di Thomas Brasch). “Le righe confondono i segni”, è il refrain ossessivo dell’innesto: un verso che può essere letto come l’impossibile tentativo di costringere in una forma coerente un materiale così incandescente da disintegrarsi nella scrittura.
Quella del padre è solo una delle guerre di cui in Cocktail k si racconta. Non meno drammatiche sono le guerre del figlio, che solo moltiplicando i nomi dei soldati intrepidi e sconfitti, o mimetizzandosi in molteplici eteronomi, può affrontarle o sottrarvisi. La stessa scrittura è una guerra: una scrittura sempre inquieta, esuberante e scontrosa, mai pacifica o pacificata. Un vero “corpo a corpo con la pagina”, come lo scrittore altrove confessa.
Sul versante più promettente della sua ricerca, FK rivela un impegno espressivo poetico in senso stretto, assolto senza mai rinunciare alla vena caustica che caratterizza tutto il lavoro di questo scrittore. Spesso egli produce veri e propri congegni ludici (peraltro sempre riusciti), tali da rendere più spumeggiante il cocktail, o si sfrena in funamboliche galoppate espressionistiche. Ma qui siamo già a un altro componente della mistura, quello più aspro, dove si racconta di “donne e amori” in toni non proprio stilnovistici. E’ nelle poesie erotiche che i versi di FK diventano più umorosi e umorali, con qualche guizzo lirico che però riesce, anche qui, in un falsetto (auto)irrisorio. Ma dietro l’irrisione e l’esibizione farsesca di un erotismo selvaggio, raccontato come uno scontro all’arma bianca, così come nelle pose bricconesche e dissacratorie del poeta sogghignante, si avverte un retrogusto di amarezza e disincanto.
L’acre melancolia potrebbe ben essere l’ingrediente segreto di Cocktail K; sennonché Krauspenhaar non vorrà mai passare per poeta melanconico, né scadere nell’elegia se non per gioco. Al disincanto non si arrende, ma lo affronta con tutti gli armamenti retorici di cui dispone. I momenti di malinconia pensosa sono rari, ché subito vengono travolti nella pirotecnia di un linguaggio mobilissimo e straripante d’invenzioni; un linguaggio che rincorre sé stesso come le rapide di un fiume – E che si apprezza ancora meglio a una rilettura.
Rileggendo, si possono meglio scoprire e assaporare i minuti ingredienti della ricetta: gli arditi slittamenti semantici, le stupefacenti omofonie, le variazioni e acrobazie linguistiche che, letteralmente, mozzano il fiato del lettore.
Giovanni Monasteri
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