Mi è caro, il circo, mi è caro da sempre.
Non nell’aspetto lustro e patinato, non nelle risa e lo stupore degli sguardi bambini, ma nella sua essenziale tragicità. Nel modo in cui rappresenta e riproduce esattamente l’intero spettro dell’esistenza umana e la sua dimensione transeunte.
Mi piace immaginare la carovana che si muove di città in città come il nostro stesso passaggio su questa terra, che si arricchisce di volta in volta e di volta in volta dissemina frammenti nei territori umani che attraversa. Un rapporto dinamico tra chi agisce e chi osserva, una relazione che non è mai univoca e non è mai data una volta per tutte.
E’ questo, Zirkus: numeri che si susseguono e incatenano lo spettatore, lo privano di innocenza nel momento esatto in cui acquista il biglietto e si mette a sedere.
Da quello più ingenuo, che si lascia abbagliare dalla magia senza volersi porre altre domande e resta poi folgorato da improvvisa rivelazione, a quello più smaliziato, in cerca del trucco, dell’inganno, che viene raggirato dal suo stesso preconcetto e finalmente trova nel suo sguardo opaco un punto fragile che non aveva previsto.
Per quest’ultimo Zirkus è un gioco di specchi, è un prisma che lo scompone e gli mostra – forse per la prima volta – i colori che di sé ignora, le sue zone d’ombra, le bugie celate, l’immagine riflessa e deformata infinite volte.
Ciò che mi attrae in un’opera e me la rende degna di interesse è la compresenza di tre poli fondamentali e il modo in cui la narrazione riesce a giostrarsi tra loro, senza ricorrere a effetti speciali. Il modo in cui illumina questo difficile ménage à trois.
Nello specifico i tre poli sono: l’etica collettiva, il tentativo di darsi un’identità personale e il sacro.
Io, Dio e il Mondo.
Questi tre elementi devono esserci sempre, foss’anche per negazione.
La tragicità di una narrazione dipende dall’assenza conclamata di uno dei tre o dal fatto che due degli elementi possano allearsi contro l’altro. Quando dico assenza, voglio intendere che il divino (o un altro degli elementi fondamentali) è comunque presente, seppur negato o distrutto. Benché invisibile, deve aleggiare, lasciare una traccia, un alone. Una macchia.
E’ così in Zirkus: il dio creatore sparisce, è sullo sfondo ma resta muto. Il dramma si consuma tra la massa degli spettatori e i protagonisti, nel continuo rimbalzo tra chi sembra addossarsi nei suoi equilibrismi il peso e le fatiche del mondo e chi, inerte, crede semplicemente di assistere alle messinscene, senza darsi immediatamente conto di esserne egli stesso protagonista, in egual misura e con identiche responsabilità.
E’ assente, il Dio creatore. Muto. Nascosto dal tendone.
Non ne uscirà mai.
Potrebbe qui, in Disillusionismi, quando la carne della sua stessa carne dubita di sé e si perde:
Accoccolato nella polverosa quinta, non mise mai
la mano nel cilindro per paura di scoprire
di non essere affatto un grande mago.
Fu il rumoroso rantolo del suo ultimo respiro
a far scappare via il coniglio dal cappello consunto.
Potrebbe. Se solo volesse.
Invece resta muto.
Fedele al libero arbitrio non viene fuori neppure al momento dei saluti, nemmeno per riscuotere gli applausi.
Qualcuno sostiene di averlo visto alla cassa, ad incassare il dovuto. Qualcun altro di notte, intento ad attaccare i cartelloni per il prossimo spettacolo. Qualcuno, infine, a blandire i passanti.
Venghino, siòri e siòre, venghino: Zirkus sta per cominciare.
Brunella Saccone
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