Forse all’inizio c’era una piuma spersa, una giuntura di metallo, un petalo di rosa calato dal corpus domini. Oppure una tasca di vestaglia, un trispito, nascosto sotto un letto che si lasciava viaggiare.
Epifanie lunghe una vita o un minuto.
O magari, invece, all’inizio c’era un’idea che camminava all’indietro, un ragionamento che non si lasciava pettinare, una pena messa sul tornio e poi infilata nel rintocco di una campana.
Pensieri in immagini al galoppo.
Certo uno sguardo, c’era, sporco di cantiere e luna.
(E lo sguardo sa bene cosa fare su certi grumi di vissuto: li taglia e li moltiplica, come nelle storie del vangelo, li strema e li rastrema, poi li gonfia li gonfia, con pazienza. Lo scoppio non è che una nuova creazione: una scorta di mondi di riserva quando il già visto, il già detto non può più bastare…)
Così nacquero Angeli e Case, a portare notizia di un altrove, che si dà dentro le cose, i pensieri e gli sguardi.
Angeli a pulviscolo e a scadenza, che scappano, baciano, esplodono, forse per nevicare.
Case a gorgo, che evaporano, ondeggiano, inghiottono e restituiscono presenti passati, perché le stanze imparano a memoria i tempi e li covano nell’ombelico.
La scrittura di Anna Mallamo ne è ospite mobile ed inquieto, fra liste ed elenchi che fanno da pilastro a multiversi rotanti.
Una scrittura che ha del sortilegio, proliferante e auto-germinativa, come quanto ha in sè energia, giustificazione e ragione d’essere: punto o seme.
Vocata all’impasto, è già immagine, che Mario Bianco prende in consegna e modula in composizioni che sono guizzi di colore e forma, accumuli precari e mossi: residui o cominciamenti.
Sinestesie a due voci.
Zena Roncada
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