C’è una sorta di patto con la poesia nei versi di Massimo La Spina: la richiesta di dar voce ad un paesaggio di eventi interiori, “frammenti d’universo”, attraverso due percorsi.
Il primo coincide con l’assunzione di un “codice muto”, che rifugge dagli accenti alti, dai toni sopra le righe (neppure una maiuscola a suggerire un desiderio d’elevazione), e dichiara la sua propensione al silenzio e ai segni nudi, la sua vocazione a restare sottotraccia, fraterno alle parole del giorno che “stentano” e alle ore che “faticano”.
La seconda strada passa per la scelta di una stazione d’osservazione: una postazione laterale, mai in medias res, collocata ai bordi delle cose, nella dimensione temporale dell’ “è già tardi” o dell’ “ancora no”. In questa non coincidenza, in questo scarto di fase, si chiede alla poesia di non essere cronaca, né programma di intenti futuri, ma eco di una timidezza schermata e trattenuta, che si traduce in ripensamento a margine, in rilettura differita.
La poesia accoglie questa domanda multipla e diventa luogo della confidenza con l’anima: spazio dell’interrogare, non dello spiegare, e spazio dell’ascoltare, non dell’affermare. Area, ad alta “densità personale”, dunque, in cui affiora il “cosa c’era”, attraverso un ri-andare, un ri-cordare ricondotto alla sua origine (cor, cordis, cuore), al suo essere, cioè, la “seconda volta del cuore”, “di un cuore nomade / circondato da troppi infiniti”.
La poesia di Massimo La Spina anche per questo si fa, a sua volta, “nastro bianco”, che annoda immagini (i movimenti e i modi del sentire) e con la loro superficie mossa dialoga sottovoce.
Zena Roncada
Lascia un commento