Per quanto possa sembrare incredibile, la vocazione letteraria di Zena Roncada si è rivelata e ha trovato per la prima volta espressione solo quando lei ha aperto un blog. È nel suo blog, infatti, e in altri spazi della Rete dedicati alla scrittura di qualità, che questa bravissima scrittrice ha pubblicato per la prima volta i suoi testi. In precedenza Zena aveva curato e pubblicato solo delle corpose antologie letterarie per la scuola. Senza la Rete, dunque, la biografia di Zena Roncada avrebbe potuto essere quella di una professoressa d’italiano, che coltiva fiori d’ogni specie nel suo bellissimo terrazzo (più che un terrazzo, un giardino pensile, un orto botanico) e scrive ricchi testi scolastici. Sarebbe stata tutta qui la sua storia, non fosse che, a dilatarla nel tempo e nello spazio, altre storie hanno preso a germinare numerose e quasi per virtù propria in quel suo terrazzo. E alla stagione giusta c’è stata la stupefacente fioritura di quei delicatissimi poemi in prosa, poi raccolti col titolo di “Terrazzi tra i muri”, che, apparsi per la prima volta nel suo blog Pesci di nebbia, lo hanno reso in breve tempo un cult.
Hanno una natura vegetale, le storie di Zena. Dallo spazio deliziosamente fecondo di quel terrazzo, infatti, si sono poi propagate, sarmentose, scendendo e diramandosi lungo segreti percorsi nelle campagne circostanti – in quel paese di nebbie morbide e silenzio, dove l’argine del Po diventa il confine di un luogo favoloso di memoria e racconto – il luogo, appunto, dove accadono le storie.
Questo luogo coincide con un’area geografica precisa, quella di un certo paesino del mantovano. Ma nominarlo sarebbe fuorviante, perché non è quella la geografia cui ci rimanda la narrazione di Zena, bensì un’altra, più interiore e più fitta di intrecci e sotterranee ramificazioni, definita dal titolo di questa raccolta, apparentemente piano e quasi dimesso, come piane e dimesse sono spesso le più efficaci formule di incantesimo: “Qui da noi”.
Incipit di gran parte delle storie, qui da noi è la nota magica che le suscita e che delimita lo spazio della scrittura, estraneo a ogni concreta mappatura geografica. Come il c’era una volta delle favole, qui da noi proietta immediatamente il lettore nel luogo non altrimenti definibile del racconto, che ha una coloritura di favola eppure rappresenta una realtà riconoscibile e familiare – antica, lontana e tuttavia presente e viva: qui. La formula evocatrice è potente e ha qualcosa di sacrale, come aprire un album di antiche foto in bianco e nero con gesto infinitamente affettuoso. Qui è un luogo immutabile, metastorico, eterno presente della memoria, anche se chiudere gli occhi e ritrovarlo può pungere di nostalgia.Qui da noi designa un’appartenenza, è un amoroso abbraccio che raduna la famiglia, una carezza che suscita cari fantasmi e li depone con delicatezza sulla scena.
Zena dà l’impressione di trascrivere le sue storie, più che di scriverle. Quelle storie sembra che esistano prima della scrittura, che non possano essere raccontate se non con quelle parole, con quel verso lungo (o quel capoverso breve), con quel ritmo. Nel ritmo di quei versi, o capoversi, si riassaporano i modi e il senso di un raccontare antico che fa corpo con la storia stessa, e che la scrittura ritrova con stupefacente naturalezza. Ci sono storie – anche questo è un incipit frequente di questi racconti – ci sono storie, tra quelle che Zena racconta, in cui sembra quasi di assistere a una celebrazione liturgica. E poi ci sono storie, o meglio evocazioni, raffigurazioni, in cui le cose vengono semplicemente nominate, elencate (“l’argine e la golena, il maschio e la femmina, le robinie selvatiche e i fiori del diavolo…la Coop… i canali grassi di rane e magri di acqua”): la nuda nominazione già dice tutto il paesaggio, tutto un luogo e la sua storia.
Una cosa colpisce particolarmente leggendo i testi di Zena Roncada: la limpida e affettuosa adesione delle parole alle cose, la loro capacità di seguirne il movimento e, come lei stessa scrive in uno dei suoi deliziosi poemi in prosa, di cambiare “per seguire le cose o il cuore”. È una scrittura mobile e mimetica, questa, che aderisce perfettamente alla materia; diventa le cose stesse. Zena Roncada, consapevole della potenza evocatrice delle cose-parole, le tratta con estrema delicatezza, con rispetto, con amore e devozione
Zena Roncada possiede all’estremo grado il gusto delle (per le) parole. Un gusto, propriamente, che si avverte nella bocca, prima di diventare musica. La scrittura procede per lemmi calcolati, torniti, per piccoli e lenti bocconi saporosi. Una scrittura affabile, carezzevole e sensuale, che richiede l’attenzione di tutti i sensi e li sollecita così abilmente da provocare a volte delle vere e proprie allucinazioni olfattive, gustative, visive. Tanta vividezza della rappresentazione è ottenuta grazie a una tecnica che potremmo definire acquerellistica. Zena è un’acquerellista della scrittura. Il tocco è leggero, rapido, delicato e preciso; ma più il disegno è tenue, più s’incide nell’immaginazione. La forza della scrittura di Zena, la sua felicità, è proprio nell’uso dei mezzi toni, delle sfumature. Piace, alla scrittrice, avvolgere paesaggi e figure nella nebbia, stemperarle in quest’acqua sottile e impalpabile; e la nebbia, infatti, è spesso presente nei paesaggi che Zena dipinge e nelle storie che racconta. La nebbia è uno sfondo, un velario, da cui le cose evocate emergono come i passanti o i ciclisti lungo le strade invernali, rivelandosi quasi come fantasmi e già disponendosi a sparire. È anche un collante, un abbraccio che tiene insieme le cose mentre ne dissolve i contorni. Nella nebbia le cose si confondono, “sono più vicine e si prestano qualcosa”. La nebbia dà un senso di intimità, di vicinanza, di comunanza, e al tempo stesso allontana la visione, la fa remota e antica. La nebbia, infine, è un artificio scenico nel teatro della memoria: un effetto flou, una seppiatura che colora d’antico e di nostalgia i personaggi, e che ne rende possibili le metamorfosi, l’indicazione retrospettiva di un destino.
Zena Roncada è una scrittrice affabile. Lo è anche la persona, come sanno bene quanti la conoscono. E il suo sguardo sulle cose è come lei: affettuoso, limpido, incantato; nel senso che si rifiuta di essere disincantato, malgrado la saggezza della persona e le malizie della scrittrice. Proprio a questo serve raccontare le storie, vere o “bugiarde” che siano: a preservare quello sguardo che fu di un altro tempo, di un altrove che è ancora e sempre qui.
Anna Setari, Giovanni Monasteri
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